Auschwitz è un brano musicale scritto da Francesco Guccini ma a firmare il pezzo sulla prima pubblicazione non fu Guccini, in quanto non iscritto alla SIAE, bensì furono Maurizio Vandelli e Lunero (pseudonimo di Iller Pattacini); poco dopo, il cantautore si riappropriò interamente del pezzo, dichiarando di essere l’unico autore della canzone in un programma televisivo del 1967 condotto da Caterina Caselli e Giorgio Gaber, e soprattutto pubblicando il pezzo a suo nome nel suo primo album, Folk Beat N.1.
Nel 1992, anche i Nomadi incisero il brano inserendolo poi nell’album “Ma che film la vita”. La base qui proposta è quella con l’arrangiamento del gruppo emiliano.
Guccini scrisse Auschwitz, anzi “La canzone del bambino nel vento, Auschwitz”, molto presto, addirittura nel 1964, un paio d’anni prima che fosse pubblicata per la prima volta su disco, come facciata B di un 45 giri dell’Equipe 84 che sulla facciata A presentava Bang bang, cover di un allora celebre pezzo di Sonny & Cher. In realtà era già un piccolo grande passo avanti perché a quel tempo il beat proliferava di cover di pezzi inglesi e americani, e già accogliere un pezzo di uno sconosciuto e agguerrito cantautore, era qualcosa. Tanto più visto che si trattava di un testo complesso, di una potente invettiva contro l’Olocausto e l’attitudine umana alla guerra.
Guccini ebbe l’ispirazione per scrivere il pezzo e affrontare il tema dell’olocausto ascoltando l‘album“The freewheelin’ di Bob Dylan”, (quello per intenderci che contenevaBlowin in the wind), leggendo il saggio di “Edward Russell, II Barone di Liverpool Il flagello della svastica” e il romanzo autobiografico di “Vincenzo Pappalettera Tu passerai per il camino” dove, quest’ultimo, aveva raccontato le sue memorie sulla sua permanenza nel campo di concentramento di Mauthausen.
Nel marzo del 2016, in occasione del 50° della sua prima pubblicazione del brano, Guccini è andato ad Auschwitz accompagnando gli studenti della Scuola Media Salvo d’Acquisto di Gaggio Montano sull’Appennino bolognese, insieme a don Matteo Maria Zuppi, vescovo di Bologna.
(Di seguito un’analisi collettiva
svolta dal Liceo Alessandro Volta di Como)
Auschwitz è indubbiamente una delle più celebri
canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo
intendere la musica non solo come diletto, ma come strumento di denuncia anche
se non necessariamente apportatore di rivoluzioni. Egli prende in esame il tema
dell’olocausto, ma la seconda parte della canzone trascende tale contesto per
abbracciare una più estesa riflessione sulla crudeltà umana.
La prima strofa presenta la situazione in termini
molto schematici: il narratore è un personaggio morto da bambino in una
condizione strana, “passato per il camino”. L’insistenza sul termine
morto in apertura dei primi due versi crea l’atmosfera cupa e nostalgica che
accompagna tutto il brano. Da notare è la durezza di quel “con altri
cento” che evidenzia l’impersonalità del massacro, sottolineandone allo
stesso tempo la dimensione. La prima strofa si chiude poi con la presentazione
della situazione attuale; il narratore si trova nel vento.
La seconda strofa, invece, tratteggia la
scenografia del dramma ponendo subito in rilievo un nome terribile, evocatore
di sofferenza e paura, Auschwitz: l’inverno, il freddo e la neve, che potrebbe
essere la gioia di ogni bambino, ma non di colui che si trova lì a morire; c’è
poi l’ambiguità del fumo e del camino, che ricordano scene di tranquillità
domestica, ma sono qui ben altri segni. La terribile fine è solo accennata, con
gusto per così dire classico, senza insistenza su macabri particolari, ma,
semplicemente, con l’immagine di un fumo che sale e la presenza di persone che
scompaiono, però, per ritrovarsi nel vento.
La terza strofa funge da collegamento tra le due
parti del pezzo opponendo alla massa il suo silenzio. L’antitesi crea un
efficace sensazione di vuoto, di freddo e morte: questi uomini, ma sono ancora
uomini?, non osano più parlare, sono spogliati della propria dignità e
individualità, sono tra quei cento o lo saranno presto. Il tempo non cancella
quei ricordi nel bimbo morto, egli non riesce a sorridere e si chiede invece,
ingenuamente e forse infantilmente, il perché di quelle stragi. E’ questo il
momento il cui la prospettiva si amplia e si universalizza quell’esperienza di
morte divenendo paradigmatica dell’umana crudeltà. Guccini sembra pessimista,
non ha fiducia nell’uomo e nella sua perfettibilità, lo coglie solo nel suo
atto crudele: fantastica intuizione quella di porre alla fine di due versi
consecutivi i termini uomo e fratello legati dal crudo realismo del verbo
uccidere. Al bimbo, e indubbiamente la scelta come narratore del simbolo
dell’innocenza e della purezza non è casuale, sembra assurdo che tutto questo
sia potuto accadere, ma è costretto a costatare l’evidenza del fatto:
“siamo a milioni/in polvere qui nel vento”. Ancora un numero enorme,
come il cento iniziale, rende l’idea dell’ampiezza del fenomeno esasperandone
la gratuità.
La penultima strofa sembra un grido, un grido di
rabbia impotente e disperato, la cui forza è ottenuta con sapienti scelte
lessicali: il cannone tuona, terribile segno di morte, e il sangue scorre
ininterrotto, per culminare con lo stridente contrasto tra questo sangue,
l’aggettivo contenta e la connotazione di bestia umana assegnata a tutta
l’umanità. Del resto, l’impersonalità del termine uomo, usato due volte,
sottolinea già da sola come le accuse e le domande siano rivolte all’umanità
intera, tutta ugualmente colpevole se non dell’olocausto, di altri innumerevoli
assassinii. Terribile è l’epiteto bestia, e ricorda pagine del Principe di
Machiavelli, perché presenta l’uomo come bruto, come animale regolato solo da
impulsi irrazionali e incontrollabili. Il rilievo conferito in questa sede
all’ancora acuisce la durezza delle accuse all’umanità che, nonostante si sia
accorta delle proprie scelleratezze, continua a commetterne di nuove ogni
giorno.
Tuttavia Guccini non se la sente di chiudere così,
vuole lasciare un varco, una via di scampo all’uomo, sperare che si possa
ancora redimere: ecco il significato dell’uso del futuro nell’ultima strofa che
si apre ancora con un “Io chiedo” che questa volta non è tanto una
domanda o un’accusa quanto piuttosto un’accorata preghiera, una speranza che
vuole a tutti i costi uscire e realizzarsi e che è tutta contenuta in quel
verso “a vivere senza ammazzare”, così semplice eppure tanto intenso
e diretto.
Non si può ignorare nell’analisi di questo pezzo
la presenza del vento, vero elemento costante nella chiusura di ciascuna
strofa. Il vento che sembra leggero e spensierato è in realtà greve del peso di
tutti quei morti, è un vento irrequieto che sembra schiacciare l’uomo
gettandogli addosso le sue colpe, accusandolo con l’innocente, ma per questo
più dura, voce di un bambino. In tutte le strofe esso è accompagnato da qui,
ancora, adesso, a sottolineare come si stia parlando di qualcosa di presente e
attuale su cui è necessario riflettere. Pensare, però, non basta, bisogna, è
questo il significato delle ultime strofe, agire e cambiare, solo così “il
vento si poserà” .
La canzone non presenta rime, se non occasionali
(prima strofa), il suo ritmo è creato piuttosto dalla brevità dei versi,
costituiti spesso ciascuno da una frase in sé compiuta, che crea brevi, gelide
scene.
Sono tuttavia presenti in due punti cruciali degli
enjambements: “non ho imparato/a sorridere” nella strofa centrale
sottolinea il dramma che permane negli occhi e nel cuore, che non può e non
deve essere dimenticato, un dramma che spezza e smorza il sorriso; “non è
contenta/di sangue” indica invece piuttosto la lacerazione del pensiero
che non osa immaginare che possa ancora succedere qualcosa di simile, ma è
costretto a costatarlo nei fatti e, inoltre, rafforza il contrasto tra contenta
e di sangue.